Viaggiare - Diari di Viaggio


UN CAPODANNO DIVERSO
(Dicembre 1975)


(testo di Edgardo Spanò)

Evviva questa sera ci daremo ai bagordi, sarà il più bel capo d’anno mai trascorso.
Fortuna che, grazie alle conoscenze di Fabio, siamo riusciti a prenotare quattro posti al PARADISO BIANCO, in pratica il migliore albergo di Rivisondoli; se non fosse stato per lui, il pomeriggio del 31 dicembre non avremmo trovato un bel niente.
Dai, forza, alla macchina, torniamo a casa, ci cambiamo e poi …tutta vita!!!
Urca ragazzi che freddo, accidenti come nevica! Sarà una notte incantata!
Fabio non stava nella pelle. La mia nottata finirà solo a giorno inoltrato, diceva. Questa sera deve essere speciale: Bacco, Tabacco e Venere.
Quintino, un amico venuto da Milano a trovare Agostino, nostro compagno di avventure durante le vacanze estive, il più freddoloso di tutti, si era messo quattro sciarpe avvolte attorno al collo, zucchetto di lana calato fino agli occhi, guanti di lana spessa un dito, due maglioni e un pesante giaccone, prestato forse da Amundsen al ritorno dalla spedizione nell’Artico. Unica nota stonata un paio di scarpe leggere quasi da ballerino della Scala, così aveva detto Agostino. La mia fida Dyane rossa che avevo parcheggiato sulla strada era diventata bicolore: tetto, cofano e parafanghi bianchi e fiancate del colore originale.
Prepara le chiavi e apri subito altrimenti diventiamo dei ghiaccioli. Pronti, via.
Dai, apri, che aspetti?
Ci sto provando ma la chiave non entra.
Forzala un po’ vedrai che pure se la serratura è ghiacciata, se spingi, cede.
Niente da fare non ne vuole sapere.
Qui devo intervenire io, disse Ugo.
Tieni, mi disse porgendomi un accendino, riscalda la chiave sulla fiamma e poi vedrai che entra. Ragazzi riparate la fiamma con le mani altrimenti il vento la spegne.
Ma così mi bruci, si lamentò Fabio, prova adesso.
Ecco, ecco forse ci siamo. Bingo! si è aperta.
Tutti dentro e accendi il riscaldamento a palla.
Ma Quintino dov’è?
Era qui a fianco a me, fa Ugo.
Un diafano fantasma bianco apparve dal vetro appannato. Con il cappello di traverso sugli occhi e la neve che fioccava, annaspava invano con le mani annegate in delle grosse muffole alla ricerca della minuscola maniglia. Fabio gli apre lo sportello e lo tira dentro. Ma dove ti eri cacciato?
Lungo, per terra, scivolato su una lastra di ghiaccio! Una culata tremenda! Vai piano, specie sulla discesa, mi dice, che la strada è una pista di pattinaggio.
Non ti tieni neanche in piedi, disse Fabio già euforico prima ancora di bere. Ragazzi se domani ci dovesse essere troppa neve, faremo durare questo capodanno 24 ore. A riscaldarci ci penseranno una bottiglia di Gin e le amiche di Maria venute in vacanza proprio per noi! A suo dire sono una meglio dell’altra, speriamo bene.
Credo proprio che se cominci così non arriverai nemmeno alla mezzanotte, intervenne Ugo.
Si parte.
Le gomme scricchiolano sul ghiaccio ma poi trovano della neve fresca e lentamente avanziamo su un tappeto bianco già formato. La nostra presenza in macchina ha appannato completamente i vetri e la visibilità è quasi nulla. I fari riescono a fatica ad illuminare la strada perché la luce si riflette sui fiocchi di neve che cadono copiosi. Per arrivare a casa mia dobbiamo attraversare una parte dell’altipiano delle 5 miglia ed arrivare fino al valico della Forchetta, oltre il quale dovremo percorrere una decina di km della strada che scende fino a Lettopalena, ma in posizione più riparata.
Ora siamo fuori dall’abitato, nel buio più completo; siamo riusciti a raggiungere la strada statale ma qui è quasi peggio, di neve ce n’è parecchia e sta scendendo giù più violentemente trasportata da un vento che sembra quasi spostarci. In questo tratto la strada corre su un terrapieno più alto del livello del terreno e non si riescono a capire i confini. Il freddo si è fatto ancora più intenso e il soffitto della leggera capote, oltre a tremare anche lui come noi, si è imperlinato di goccioline di ghiaccio contro le quale il riscaldamento non ha alcun potere. Il tracciato della strada non esiste più, avanzo guidato dal riflesso dei fari sui catarifrangenti dei pali posti ai margini dell’asfalto. Giro verso destra con la luce bianca e verso sinistra con quella rossa. È uno zigzag che ci fa avanzare molto lentamente. Il vento ci sposta e tutti noi speriamo di non essere spinti giù dal terrapieno. Il motore per fortuna gira sicuro senza tentennamenti ma assieme al fischio del vento è l’unico rumore a rompere il silenzio tombale che si è creato all’interno dell’auto.

Non si sente un respiro. Attorno a me avverto gli occhi sbarrati dei miei amici puntati in avanti come dei radar che cercano nel buio qualche riferimento che ci venga in aiuto. Gli esili tergicristalli si affannano invano nel tentativo di pulire il parabrezza ma non ci riescono perché i fiocchi di neve si ghiacciano non appena toccano il vetro. Il rumore delle spazzole, prima un esile cigolio, è diventato ora un ruvido raschiare sulla irregolare superficie ghiacciata. La già ridotta visibilità si sta riducendo ancora di più.
Il genio di turno, Quintino, mi suggerisce di aprire il vetro per cercare di togliere un po’ di ghiaccio con un giravite. Anche se incerto sull’esito dell’operazione è pur necessario tentare qualcosa per cercare di vedere attraverso il parabrezza che assomiglia sempre di più ad uno spesso cristallo smerigliato. Faccio scorrere il vetro del finestrino all’indietro lungo la guida e siamo investiti da un turbine di neve sparata a vento contro di noi. A fatica tiro fuori un braccio impacciato dall’ingombrante manica della giacca e tento un’operazione che si rivela subito impossibile. Caparbiamente tento ancora ma il vento e la neve che entrano violentemente e la totale mancanza di risultati mi fanno desistere. Desistere? Operazione impossibile anche questa, perché nel frattempo la neve che si è depositata nel canaletto del finestrino è diventata ghiaccio e mi impedisce di chiuderlo. Non vedo assolutamente niente né davanti né di fianco sotto l’effetto di quella tormenta che mi soffia impietosamente sul viso. Il giravite ora deve aiutarmi almeno a liberare la sede del finestrino altrimenti non so più come fare. Chiuso, finalmente chiuso, quasi del tutto. Resta un acuto sibilo del vento che ancora tenta di entrare infilandosi in una impercettibile fessura rimasta aperta.
Davanti a me un muro bianco. Mi sembra di essere solo in macchina. Non si avverte la presenza di nessuno e sono finiti anche i suggerimenti. Nonostante tutto avanziamo ancora ma con la stessa andatura che avrebbe una biglia respinta dalle sponde di uno stretto biliardo. Dovremmo aver percorso un paio di chilometri ed essere al centro dell’altipiano e considerata la violenza del vento, credo di non sbagliare.
Sto ancora inseguendo i catarifrangenti dei pali, ma qualcosa non mi torna perché non ne vedo più. Ancora qualche metro e mi fermo per capire meglio. Niente, solo una frenetica e accecante danza di fiocchi di neve sbattuti dal vento. Scendo dalla macchina per rendermi conto di cosa stia accadendo e riparandomi gli occhi da quegli aghi di ghiaccio scagliati impietosamente sul mio viso mi sembra di scorgere un palo più alto degli altri e più in là anche una fioca luce tremolante. Ora mi è tutto più chiaro. Rientro velocemente in macchina e quello che vedo sotto la luce dei fari non è altro che una conferma di quello che ho capito.
Davanti a noi il veloce turbinio della neve nella tormenta ha creato attorno all’asta del passaggio a livello un alto cumulo di neve che ha ricoperto del tutto il suo supporto ed ha ostruito completamente i binari e di conseguenza la sede stradale. La luce più avanti doveva sicuramente essere quella del casello ferroviario. Siamo al capolinea. Tutti riprendono vita domandandosi cosa fare e come intervenire per uscire da quella situazione tragica ed inaspettata. Forse il casellante avrà una pala con la quale tentare di liberare il passaggio. Mi faccio coraggio e assieme ad Ugo mi dirigo al casello. E’ più difficile di come immaginavo perché bisogna camminare di spalle alla direzione del vento e con le mani davanti agli occhi; è molto freddo ed il vento che entra dappertutto ci sta letteralmente congelando. Arriviamo alla porticina, proviamo a spingere e per fortuna cede alla nostra pressione e riusciamo ad entrare.
Davanti a noi si apre una scena che sembra ferma a centinaia di anni prima. E’ un locale unico, rettangolare come la pianta dell’intera costruzione. Sul fondo una stufa a legna lascia filtrare dal vetro dello sportello una fioca luce tremolante mentre il resto del locale, in mancanza di corrente elettrica, è illuminato dalla bianca fiammella di un lume a carburo, un barilotto cilindrico simile a quello usato dai minatori, appeso con un gancio alla parete d’ingresso. Ad accoglierci con stupore sono il casellante ed una coppia di media età bloccati anche loro con la macchina ma nella carreggiata opposta.
Attanasio, così si chiama il ferroviere, non indossa alcuna divisa ma dei grezzi e pesanti abiti da montanaro che lo fanno sembrare più un pastore che un dipendente delle FFSS (Ferrovie dello Stato). Un solo accessorio lo distingue, un cappello nero con visiera e stemma dell’azienda contrassegnato da una ruota e due ali stilizzate contrapposte. Avrà almeno una ventina d’anni, il cappello, e col tempo si è adattato perfettamente alla forma della testa di chi lo porta, la stoffa tanto consumata da essere quasi lucida si ripiega ai lati adagiandosi sulla fascia che sostiene la visiera anch’essa appesantita dal tempo.

Le altre due persone si trovavano in macchina dirette a Castel di Sangro per raggiungere i loro familiari quando sono stati sorpresi dalla bufera. Il loro abbigliamento alquanto dimesso non lascia certo trasparire una grande floridezza economica, ma quello che ci colpisce di più è che non è assolutamente adatto a ripararli dal freddo intenso che imperversa fuori. L’iniziale stupore viene interrotto dalle parole semplici di Attanasio che ci invita a riscaldarci e ad accomodarci su delle panche sistemate lungo quasi tutte le pareti. Ci chiede da dove veniamo e il motivo della nostra presenza. Io ed Ugo siamo rimasti smarriti e senza parole davanti a quella situazione. Il nostro abbigliamento, molto più tecnico del loro, contrasta troppo con quello indossato da loro che, nonostante vivano abitualmente in quei luoghi, dispongono di un confort infinitamente inferiore. Attanasio era sereno e tranquillo, abituato a quel clima ed a quelle situazioni, per lui ogni giorno dell’anno era uguale agli altri, non esistevano ferie, vacanze e capodanni. Un ciocco di legna per riscaldarsi, qualche salsiccia secca, un tozzo di pane e il lento trascorrere del tempo era tutto quello di cui aveva bisogno.
Non so cosa dire né da cosa cominciare. Lo sguardo immobile e smarrito di Ugo non mi aiuta. Provo a chiedergli una pala per riaprire la circolazione stradale, d'altronde oltre ad essere utile a noi potrebbe esserlo anche per quella coppia e per altri che dovessero passare di lì.
Attanasio mi guarda dimostrando comprensione per la mia richiesta ma aggiunge subito che in quelle condizioni non faremmo a tempo a togliere una palata di neve che se ne riformerebbero due.

E’ una situazione di stallo, andiamo a chiamare i nostri amici perché è inutile che restino a ghiacciarsi in macchina. Non c’è altro da fare che attendere un miglioramento del tempo. Ora siamo tutti al riparo. Magari se smette di nevicare e cala il vento è ancora possibile riaprire un varco nella neve e rimettersi in macchina. Fabio ci spera ancora anche se non riesce a convincere nessuno e forse neanche se stesso. Ugo è andato ad abbracciarsi la stufa e se potesse se la metterebbe nel cappotto. D'altronde anche qui, al chiuso, non si può certo dire che ci sia una temperatura primaverile, saremo si e no a 4 – 5 gradi sopra lo zero, ma senza vento, e non è poco. E’ strano pensare a quanta differenza ci possa essere in due luoghi così vicini tra loro: il night e questo casello. Uno sfavillare di luci, di colori, di musica, di baldoria, di bevande, di cibo abbondante, di gente addobbata come alberi di Natale, di chiasso, di frenesia da divertimento forzato, di voglia di trasgredire, di urlare, di conoscenze buone per trascorrere solo poche ore, una voglia irrefrenabile di tutto quello che c’è di superfluo.
Qui la totale, assoluta mancanza di tutto questo.
Eppure adesso ci sembra più vivo questo ambiente, freddo di temperatura ma caldo di umana solidarietà. Nulla mi sembra più bello ed espressivo del volto di Attanasio, una pelle indurita dal freddo per molti mesi all’anno, solcato da rughe profonde ognuna delle quali raccontava una storia, ognuna delle quali era un premio vinto nella quotidiana lotta per la vita (“qui fanno undici mesi freddo e uno fresco” diceva una fragile vecchina nativa di qui, con i capelli bianchissimi raccolti in una cipollina mai mostrata sciolta, vestita solo di abiti neri con un’ampia gonna lunga fino ai piedi e con la schiena curva dalla fatica di lavori pesanti compiuti fin da bambina). La barba grigia non fatta da giorni, non certo per moda o per falso atteggiamento, ma perché infinitamente meno importante di ogni altra cosa. I capelli disordinati, quelli che si vedevano, e in piega rigorosa a forma dello stesso cappello, quelli a vista solo quando scopriva il capo. Lo sguardo però, anche se cerchiato dal tempo, era vivo come quello di un ragazzo, i suoi occhi mostravano la limpidezza e la sicurezza di chi è consapevole di aver trascorso una vita della quale ogni ora è stata vissuta con fierezza e modestia, con semplicità e con amore per il prossimo.
Quanto mi sembrava distante la pelle del volto liscia e vellutata di tante ragazze che avevo visto in quel locale. Una superficie resa impalpabile dalla cipria, dal trucco, dal rossetto, dal rimmel e da infiniti altri filtri ognuno dei quali la allontanavano sempre di più dalla sua bellezza naturale. Dietro quel trucco si nascondevano tutte le paure, le insicurezze di chi non accetta se stesso e deve apparire, sembrare, identificarsi con qualcuno che non si è, ma che crolla miseramente nei momenti più difficili, quelli in cui il sembrare non ci aiuta a reagire ma a perderci nella ricerca di una realtà che non siamo in grado di governare.

Era già trascorsa una mezz’ora da quando eravamo entrati nel casello quando sentimmo il suono del clacson di una macchina che probabilmente era rimasta anche lei bloccata dietro le altre. Non sarebbe stata la prima e neanche l’ultima. Era chiaro cosa dovevamo fare. Non ci fu nessuna esitazione. Eravamo gli unici equipaggiati per affrontare quella situazione.
Calzammo bene il cappello sulla testa, sciarpa al collo e tutti e quattro schizzammo fuori nella direzione in cui avevamo sentito suonare. Trovammo un ragazzo ed una ragazza assieme ad una donna anziana intirizziti dal freddo e assaliti dalla paura. Nei loro occhi c’era disperazione e smarrimento, assieme allo stupore di vederci tutti attorno a loro per aiutarli. Ognuno di noi accompagnò un ragazzo e due la vecchina. Erano nonna e nipoti. I due ragazzi erano andati a prendere la nonna che viveva sola per portarla a trascorrere l’ultimo dell’anno assieme ai suoi figli. Dopo di loro arrivarono ancora altre macchine con persone di tutte le età e non solo persone. Uno di loro, dopo essere stato portato al sicuro assieme agli altri ed essersi ripreso dallo stato di shock per la tensione ed il freddo, si ricordò di aver lasciato in macchina due galline e fu nuovamente preda di una delirante agitazione. Non ci fu modo di calmarlo fino a quando non ci vide rivestirci per portare a termine anche questo inaspettato soccorso. Le due galline una bianca ed una rossa erano nel bagagliaio di una Simca 1000 con le zampe legate, le teste ciondolanti e quasi prive di vita. Una volta riportate al sicuro, il loro proprietario liberò loro le zampe ed iniziò a frizionarle con vigore. Fu con questa pratica che l’anziano signore molto lentamente iniziò a tranquillizzarsi proprio al contrario delle sue affezionate galline che invece ripresero vita e cominciarono a starnazzare sbattendo le ali e correndo su e giù per lo stanzone. Due fratellini, un maschietto ed una femminuccia di circa sei, sette anni per nulla agitati dalla difficoltà di quei momenti, inseguivano le due galline che si infilavano ovunque in cerca di un riparo, sotto le panche e tra le gambe delle persone che livide dal freddo e dalla paura davano segni d’impazienza e allontanavano i due starnazzanti volatili con gesti inaspettati creando ancora maggiore confusione.

Fuori ancora imperversava la bufera e la mancanza di soluzioni immediate o a breve termine, disegnava insicurezza e angoscia sul volto di tutti; inoltre non disponevamo neanche di cibo, e quei pochi bocconi di pane e formaggio che Attanasio aveva già messo a disposizione di chi ne aveva più bisogno, erano ormai finiti. Eravamo diventati quasi una decina di persone ma ancora avremmo avuto nuovi arrivi. Infatti un ripetuto suono di clacson, a stento percepito tra il fischio del vento, ci impose di uscire ancora una volta. Questa volta uscimmo in tre e ormai, con l’esperienza dei precedenti interventi, ognuno portò con se un giaccone o qualcosa di pesante da mettere addosso alle persone da soccorrere. Quando arrivammo alla macchina ci trovammo di fronte ad una giovane famiglia con un bimbo ancora in fasce. Non eravamo pronti per essere di aiuto in quel frangente e non sapevamo come portare il neonato. Nel frastuono del vento che urlava nelle nostre orecchie, gridammo ai due genitori di avvolgersi nelle coperte e seguire Fabio e Ugo mentre io avrei portato il loro piccolo avvolto nel morbido piumino di Quintino che aveva rinunciato a venire proprio per darci il suo giaccone. Sia il padre che la madre del bimbo non volevano lasciare il loro figlioletto ma capirono anche che quella era l’unica soluzione possibile e la più sicura per tutti. Mi fecero mille raccomandazioni e si avviarono mentre io avvolgevo con cura quel tenero fagottello che urlava a squarciagola con una voce che lasciava presagire una sua fulgida carriera nella lirica.

Calzai bene il cappello, il cappuccio della giacca e mi feci coraggio. Aprire lo sportello contro la forza del vento fu un’impresa titanica. Appena fuori fui investito da alcune raffiche più forti delle altre, non vedevo assolutamente niente né potevo voltarmi controvento perché la neve ghiacciata mi pungeva con una violenza impietosa. Strinsi ancora più forte il bimbetto tra le mie braccia e tentai qualche passo. Mi fermai un attimo per non cadere ma non capivo neanche più in quale direzione dovevo avanzare. Nell’oscurità tentai di scorgere una luce o l’asta del passaggio a livello ma era una situazione in cui non avrei visto neanche un dito della mia mano davanti agli occhi. Fui colto da alcuni momenti di smarrimento e di angoscia perché mi sentivo responsabile di quella giovane vita che tenevo stretta a me per dargli coraggio e fargli sentire che non era sola. Feci ancora un tentativo ma caddi in ginocchio nella neve soffice.
Fui colto dalla disperazione ma non volevo e non potevo arrendermi. Con una mano annaspai nel vuoto e solo qualche tempo dopo, quando tutto divenne un lontano ricordo, capii che essere caduto in ginocchio fu l’aiuto che mi venne offerto da colui che tutto vede. Fu proprio con quel movimento che toccai per terra con la mano qualcosa che non era né un sasso, né un ramo portato dal vento ma …il binario della ferrovia!
Mi sembrò tutto più facile, se quello era il binario che avevo attraversato prima, ora bastava attraversarlo di nuovo per essere certo di dirigermi verso il casello. Presi coraggio e lasciai che le mie gambe camminassero da sole e così riuscii ad arrivare davanti alla porticina della salvezza. Non dovetti neanche spingerla perché, da dentro, la spalancarono coloro che mi stavano aspettando con trepidazione. Davanti a me c’erano i genitori di quel bimbo, i miei amici e dietro di loro gli ospiti di Attanasio che fecero esplodere tutta la loro gioia nel vederci, in un fragoroso applauso che non aveva più fine. La stessa accoglienza riservata ad un eroe, questo si leggeva negli occhi lucidi di tutti quegli sguardi rivolti verso di me. Rimasi per qualche istante sopraffatto dall’emozione e assieme ai loro occhi, anche i miei presero a luccicare.
Lo sapevo di non aver fatto niente di speciale ma quello fu il più bel niente della mia vita.

Non appena sedata quella strana ed esaltante euforia trascorsero lunghi minuti di silenzio, poi qualcuno cominciò a chiedersi cosa avremmo potuto fare per intervenire in aiuto specialmente dei bambini e degli anziani. La mezzanotte ed il capodanno, protagonisti di tutto quel mondo che poche ore prima avevamo lasciato, erano già trascorsi senza che ce ne accorgessimo. Lo spumante, il cenone, i fuochi d’artificio avevano lasciato il posto a due bottiglie di acqua di fonte, del pane secco con del companatico ed a una fragorosa esplosione di gioia per il pericolo sventato poco prima.
Da quella situazione dovevamo però uscirne. La strada era completamente bloccata e non c’erano altre corse del treno fino alle ore 10 del 1 gennaio. Attanasio propose di chiamare la centrale operativa delle Ferrovie di Sulmona per chiedere che una motrice passasse per raccoglierci e portarci alla stazione di Roccaraso. Quella era la principale stazione dell’altopiano, e sicuramente avremmo potuto trovare modo di rifocillarci dopo il forzato digiuno e riscaldarci meglio, a cominciare dalle estremità ormai insensibili da tempo.
Per chiamare la centrale c’era un telefono di servizio direttamente collegato ad essa. Detta così si potrebbe pensare ad un oggetto di grande tecnologia, di fatto era una specie di cassetta in legno affissa alla parete, con una forcella sul lato sinistro, alla quale era agganciata una cornetta di bachelite, un’altra simile sul frontale che era il microfono e, sul lato destro, una manovella in ottone, girando la quale partiva il segnale di chiamata.
La proposta di Attanasio fu subito condivisa da tutti e così, alzata la cornetta, fece fare alcuni giri alla manovella; dopo qualche secondo di silenzio, cominciammo a temere sul suo funzionamento. Fece qualche altro giro e finalmente risposero.

La voce di Attanasio ripeté due volte: “Chilometro 45 chiama centrale, chilometro 45 chiama centrale” per comunicare la posizione da cui era partita la chiamata e poi fece presente, in maniera alquanto concitata la serietà della situazione. Capimmo però dalla sua espressione che l’interlocutore non era del tutto convinto della gravità del momento né della necessità di prendere soluzioni eccezionali. Riprovò allora con una descrizione più dettagliata, dichiarando la presenza di bambini piccoli e di un neonato oltre a numerose persone anziane, tutti al freddo e senza alcun genere di conforto alimentare fin dal pranzo del giorno precedente. L’attesa di una risposta si fece più lunga del previsto, dovuta forse ad un consulto con il resto del personale ferroviario circa la disponibilità di un convoglio e la fattibilità di una operazione del tutto inconsueta. Finalmente riapparve la voce nella cornetta confermando l’invio di una automotrice con un vagone. Una esaltazione di gioia coinvolse tutti e dalla gola di ognuno si levò un sonoro urlo di felicità che avrebbe potuto sovrastare quello di una intera curva dello stadio dopo un goal. Certo i tempi non sarebbero potuti essere immediati in quanto sarebbe stata necessaria una mezz’ora per allestire il treno e forse il doppio del tempo per farlo arrivare fino da noi, in quanto la neve cadeva abbondante anche a Sulmona. Miracoli non si potevano certo chiedere ma ormai sapevamo che ogni minuto che passava ci avvicinava alla fine di quella difficilissima situazione.

Dopo meno di mezz’ora Sulmona chiamò confermando la partenza del treno. La notizia fu accolta con grande soddisfazione e l’entusiasmo che si accese in ognuno di noi ci fece sembrare meno gravoso il freddo intenso che si era impadronito dei nostri arti e che pesava sulle spalle come un macigno. Cominciammo a pensare come organizzarci per arrivare al treno, avremmo accompagnato prima le persone più anziane e mal ferme sulle gambe, poi gli altri e per ultimi i bambini che avremmo consegnato nelle braccia dei loro genitori. Attanasio abbozzò ad una schermatura della fiammella della lampada a carburo per poterla portare all’esterno e segnalare al conducente del treno la nostra posizione lungo la rete ferrata. Eravamo tutti pronti, le lancette dell’orologio ci confermavano che il momento tanto atteso ormai era quasi giunto.
Era passata circa un’ora e Attanasio uscì per la delicata missione. Bastò dischiudere appena la porta che il vento sparò all’interno del nostro ricovero una folata di grossi fiocchi di neve che venivano giù con violenza. All’interno silenzio assoluto, le nostre orecchie erano tutte protese ad intercettare, tra l’urlo del vento, quello del treno che sarebbe dovuto già essere arrivato. Aspettammo ancora e poi un rumore ci fece ben sperare ma era quello della porta che si apriva per far rientrare un Attanasio completamente ricoperto di neve, tremante ed intirizzito dal freddo. Niente, del treno nessuna traccia.
Attanasio era rimasto per un quarto d’ora là fuori agitando la lampada ma senza che passasse nessuno. Era già trascorsa molto più di un’ora dalla telefonata e non ci spiegavamo perché il treno non fosse arrivato. Lasciammo trascorrere ancora una mezz’ora poi fu decisione unanime quella di richiamare Sulmona. Dopo la solita procedura, il contatto fu ripristinato. Dovevamo interpretare lo sguardo di Attanasio per cercare di capire cosa gli stessero dicendo. Sul suo volto leggemmo sgomento ed incredulità: il treno era passato senza vederci ed ora si trovava alla stazione di Roccaraso.
Come era possibile che fosse passato! Non volevamo crederci e facevamo fatica ad accettarlo. Questo significava che non avevamo possibilità di ricevere alcun aiuto almeno fino a quando il tempo non fosse cambiato. Tristezza e angoscia spazzarono via tutto l’entusiasmo e le speranze che avevamo riposto in questa operazione. Attanasio continuava a parlare apparentemente senza trovare altre soluzioni. In effetti non si poteva fare altro se non ripetere il passaggio sperando in una visibilità migliore. Fu concordato un nuovo tentativo non appena le condizioni meteo fossero migliorate quel tanto da rendere fattibile il recupero di tutti. Fu stabilito anche che il treno, una volta passata la stazione di Rivisondoli, distante solo tre chilometri dal casello, sarebbe proceduto a bassissima velocità fischiando intermittentemente. Adesso potevamo solo sperare in un miglioramento. Il tempo, che prima dell’arrivo del treno ci era sembrato volare, ora si era completamento fermato. I vetri appannati sembravano dipinti di nero, il bordo era incorniciato dalla neve ed il poco spazio rimasto libero al centro lasciava appena intravedere le nostre immagini riflesse. Aspettammo ancora un tempo indefinito prima di renderci conto che il vento si era leggermente calmato, il fischio dell’aria che soffiava attraverso le fessure degli infissi e della porta ora era appena percepibile. Forse questa volta ce l’avremmo fatta. Di lì a poco infatti un lontano sibilo ci fece sussultare, possibile mai che fosse la nostra fantasia che ci stava giocando un brutto scherzo? Prestammo maggiore attenzione, ma quel lontano fischio era distintamente percepibile e ad intervalli regolari. Quello era proprio il linguaggio concordato per avvisarci che quella brutta avventura stava per finire.
Erano passate le quattro del mattino e ci attendeva finalmente una bevanda calda ed un pasto pronto per ridare vita ai nostri corpi semicongelati. Salire a bordo non fu facile perché in assenza del marciapiede il primo gradino era altissimo e scivoloso per il ghiaccio, ma la voglia di tornare in un ambiente più confortevole e di qualcosa di caldo da mettere nello stomaco ci fece vincere ogni difficoltà. Finalmente tutti a bordo, galline comprese. Cinque minuti e saremmo arrivati al caldo. Ci volle pochissimo ad arrivare alla stazione di Roccaraso, erano quasi le cinque. Non appena arrivati ci dirigemmo verso il bar ristorante che ci accolse … a porte chiuse.

L’esercizio della stazione, in assenza di treni, aveva chiuso prima della mezzanotte. Stanchi, affamati e infreddoliti ce ne andammo nella sala d’attesa, avvicinammo le panche di legno ai termosifoni, ci togliemmo i calzini inumiditi dalla neve sciolta e ci sdraiammo con i piedi nudi attaccati al tepore dei radiatori. Con le ossa rotte, dopo un sonno di tre ore ci svegliammo da quel riposo meno confortevole di una CPR (cella di punizione di rigore). Doloranti e ancora con gli abiti umidi potemmo finalmente andare al Bar dove ci presentammo con un aspetto da straccioni, stravolti, con le occhiaie, i capelli ritorti e delle espressioni che fecero sgranare gli occhi del cameriere che non aveva saputo niente della nostra avventura.

Caffè, cappuccino e un piatto di pasta. Questa fu la nostra ordinazione. Alle 8 del mattino del primo dell’anno festeggiammo davanti ad un abbondante piatto di spaghetti alla chitarra e vino rosso di Montepulciano d’Abruzzo, contenti in cuor nostro che l’hotel di Attanasio, con una stella scarsa, aveva fatto la differenza tra la sopravvivenza ed una lenta fine per assideramento.


Copyright © 2001-2020 Taccuinodiviaggio.it - autorizzazione Tribunale di Roma n 206/07 - tutti i diritti riservati
Tutti gli articoli e i testi firmati presenti in questo sito sono protetti dalla legge 633/1941 sul diritto d’autore